Oggi, ora di latino.
- Io: Questa frase, pulvis (polvere) et umbra sumus, come si traduce?
- St.: Polvere e… ombra… siamo… “siamo polvere e ombra” giusto?
- Io: certo… e cosa significa questa frase? L’ha scritta un personaggio molto in gamba, un certo Quinto Orazio Flacco.
- St. (si schermisce con un sorriso di circostanza) ehm… non saprei.
Mentre mi vorticavano in mente gli antecedenti di Orazio, allargavo la risposta alla classe, e una figliuola azzeccava un “significa che siamo mortali”.
Dopo aver lodato la giusta intuizione ho fatto notare che se “polvere” era abbastanza trasparente nel suo significato metaforico, un po’ meno lo era “ombra”. A quel punto ho commesso un errore: ho infatti notato che un’ombra non ha senso se non c’è una luce che la proietta. Dentro di me si è creato un cortocircuito che provo a spiegare.
Per la civiltà classica l’ombra rappresenta dopo la morte la nostalgia per il gusto della vita corporea provata dall’anima che sopravvive al corpo. Per Omero, Sofocle, Orazio e Ovidio l’ombra che il sole proietta è un memento mori schiacciante.
Perché mi è uscita l’affermazione sopra citata? Perché in effetti senza una luce (che non produciamo, che non siamo noi) essa non si produrrebbe: come un suggerimento di qualcosa “altro da noi” che però senza di noi non si produrrebbe ma che ha bisogno di una luce per evidenziarsi: qual grande prova che la tomba non è il destino ultimo della nostra vita.
Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore